L'altro giorno, convinta da una copertina che non fosse Quella Del Film (come quella che ho lasciato a Milano) ma presentava una splendida foto di ragazza, ho comprato una copia di The Hours per la casa.
Ma chi diamine voglio prendere in giro: avevo una fase di "piangiamoci addosso".
Solo che per il "piangiamoci addosso (noi donne che soffriamo più e meglio degli uomini*)" va benissimo il film: la cui proiezione passai a lacrimare dalla seconda riga della lettera di Virginia** a due minuti dopo la fine dei titoli di coda, giovane e appena uscita da una depressione (più o meno, non andrei sul tecnico in questa sede) come ero. Perché il film (ma non l'ho visto di recente, mi appoggio solo al ricordo delle tre volte e mezza che l'ho visto - cinema, dvd, dvd a scene, dvd) è melodrammatico, e ti scatena il diluvio oculare come manco un "Vissi d'Arte" cantato dalla Callas: la musica di Philip Glass, le Grandi Attrici (e Santi Numi quanto son brave, la Kidman poi è - ovviamente - ancor più bella a non esser troppo bella), il Dramma dell'Artista Immortale Ispirato, le Alate Parole delle Scene Madri - ecco, appunto.
Appunto. Il libro di Cunningham è una continua distruzione dell'idea di scena madre. Tutto è una scena madre, nulla lo è: i suicidi degli artisti sono un susseguirsi di dettagli ordinarî (pescatori, pietre, scale, porte); le minuzie di una passeggiata (la coppietta, il signore con il cane) sono un mondo di profondità ed esaltazione lirica - tant'è che in tutto il libro il desiderio di Virgina per life; London è tutt'uno con la cupio dissolvi del suo suicidio - e con il suo esatto opposto, con la speranza di una vita lunga e sana.
E poi: per Cunningham l'ispirazione e l'immortalità degli artisti (e, in generale, dei "sensibili") è perennemente minata dal dubbio. L'ispirazione è forse una forma di malattia mentale: ma privata di ogni romantico "genio e follia divina", la capacità di alienare il mondo e distruggere vite (e quindi anche opere in potenza) è la caratteristica principale del sentire gli uccelli che cantano in greco antico. Il fallimento incombe in ogni istante delle vite di chi ha scelto l'arte ("I've failed" dice Richard evocando il "they all have failed" di Virginia) tanto quanto nelle vite di chi ha scelto l'ordinarietà (ma quanto è ordinaria, appunto, se costellata di luci accecanti, di sentimenti paralizzanti - magari nascosti in una camicia blu da quattrocento dollari? quanto una Mary Krull è estrema, nel suo essere una perfetta immagine di bulldyke da manuale?): e il fallimento, anche degli artisti, non è mai un fallimento eroico: è un fallimento ordinario quanto una torta glassata male; è una catastrofe che trascina con sé il dolore della famiglia (la lettera per Leonard e quella per Vanessa, la veglia delle quattro donne al posto del party) ma non tocca il resto del mondo.
E, al dunque, il dolore: il dolore del film è un tentato suicidio con CGI e musica di Glass (bella, eh, ma che non tace un istante, eh), una scena madre alla stazione che spiega ben bene i sintomi di un mixed state manco fosse il DSM-IV (no, qui son cattiva io, non credetemi troppo, faccio la cinica perché - beh, lo immaginate da voi: ma resta una scena sopra le righe); è un attore da Oscar truccato a modo da icona di morente di AIDS. Il dolore del libro sono i brividi dati da una sedia che puzza di morto che continuano mentre la bellezza e la felicità di un ricordo o di un mazzo di rose già si sovrappongono, e poi abissi di dubbio che si chiudono e si aprono e lasciano vuoti di ore (appunto) a tratti pronte a risucchiarti nell'angoscia a tratti riempite di vita - complessa e profondamente grezza, anche nei momenti di luce più accecante, contraddittoria e ironica, dell'ironia che emerge ai funerali*****, impacciata e a tentoni - non certo una scena madre da Oscar.
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Tagliando la recensione, va' là: ho preso il libro, l'ho finito in tre giorni amando ogni parola, riuscendo pure a chiudere una bordata di pratiche burocratiche nel frattempo; ma non ho ancora trovato il tempo di scrivere un post che volevo, su un bugiardino che sta facendo morir dal ridere me e il marito in questa settimana in cui devo prendere quella medicina: un foglietto su cui scrivono "se appena svegli dopo aver preso questo tranquillante non poco potente vi sentite insonnoliti o con la testa che gira, non mettetevi a guidare o a manovrare macchinari pesanti". Davvero, dice così. Da lì sarei voluta partire per commentare su come essere malati visto da fuori par sempre un dramma lacrimoso, ma quando ci sei dentro sia soprattutto una gran seccatura: dei sintomi che hanno un sottile lato da slapstick comedy, come una pila ben ordinata di piatti e bicchieri che rovina a terra con fracasso e un'eco di fracasso per una buccia di banana ti impedisce di dedicarti ai tuoi piani per il pomeriggio di persone da amare, idee da creare e mettere in bella forma, minuzie in cui deliziarsi (son tre giorni che voglio andare a farmi una ceretta all'inguine, e due giorni che una crisi mi butta a terra - beh, sul divano o a letto - con tutti i miei sensi, gli assi cartesiani della stanza e la mia livella dell'orecchio interno, e persino l'immagine di me stessa, che fanno la fine di quella pila di piatti: sempre regolarmente dopo pranzo: crisi importuna, la odio!); e poi angolini di surrealismo ("We are now bleeding from 7:30" - Beckenham Hospital, mi ha fatto perdonare l'infermiera che usa gli aghi-oleodotto per i prelievi; il mio incubo con la Morte e Barney il dinosauro - ok, ci siam capiti, il marito sghignazzava che manco uno sketch dei Monty Python). Infine, certo: c'è il dolore che si impossessa di alcuni istanti rendendoli neri e informi come batuffoli di bambagia imbevuta di pece: ma dentro c'è il nulla, e una volta passati spariscono nella lontananza, diventando quasi indicibili (o forse lo sono per me).
A metterla giù così sembra che tu voglia fare quella che ha verve a tutti i costi, ma è un dato di fatto che alla fine la vita prenda sempre il sopravvento - lo fa persino ai funerali, e tu che ci puoi fare? Puoi sperare che la prossima medicina funzioni meglio (questa mi lascia molti sogni, e soprattutto troppi con Barney il dinosauro), e abbia un bugiardino altrettanto divertente.
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Ehi, alla fine il post poi l'ho scritto, sia pure annidato così. Così lo lascio, eh, sto già rimettendoci mano alle cinque di notte - sì, il sonnifero non mi fa più decisamente alcunché, mi son svegliata un'ora e mezza fa con un mezzo attacco di - boh, non so dargli un nome, ma scalciavo come un mulo (disturbo bipolare e tono muscolare dei glutei: ci sarebbe un articolo da IGNobel da scrivere). Ora sto bene, tranquilli, quando sto male non scrivo - o di solito ho la prontezza di cancellare quel che ho scritto. Alla faccia vostra, crisi. [gestaccio]
Ma ora il post finisce, con un consiglio non richiesto e molto banale: se non l'avete mai letto, prendetevi un paio di pomeriggi in compagnia di The Hours. Il libro è meglio del film. Ma non è che il film sia brutto: è solo che il libro è profondamente, incantevolmente vivo e vero.
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*© Violetta.
** Di solito non uso i nomi proprî e basta per parlare di personaggi celebri, lascio il privilegio ai loro amici nella vita privata***. Qui uso Virginia per "il personaggio Virginia Woolf nel libro The Hours di Michael Cunningham, e nel film da questo tratto".
*** C'entra poco, eh. I matematici che ho incontrato hanno quest'uso peculiare di chiamare e farsi chiamare tutti per nome proprio parlando de visu o dell'essere umano (es. "al convegno c'è anche Christos"****), e citarsi per cognome senza riferimenti al nome proprio (o addirittura al proprio nome, parlando di sé in terza persona come autore di un articolo - es. "questo articolo di Papadimitriou").
**** Sì, Buddy Christ. Ok, sto divagando troppo.
***** Penso che con mia madre rideremo ancora per anni raccontandoci come perdemmo per strada il carro funebre della nonna (sua madre). Non è poi 'sto gran racconto, eh: chinque sia passato per Viale Certosa può immaginare da sé come nel turbamento del lutto e negli automatismi da trent'anni di guida per Milano e nella varietà delle strade possibli in zona sia potuto capitare.