sabato, dicembre 10, 2005

Orecchio.

Fin da quando ero bambina, le note mi dicono il loro nome. Ora penserete che io non stia proprio bene. Non è così, tranquilli. Mi dicono che si chiama "orecchio assoluto passivo", e capita. Vuol dire che le note ti parlano, e ti dicono il loro nome. Non vuol dire saper suonare. Non vuol dire nulla. Non vuol dire, ad esempio, che non si butta il piano alle ortiche dopo otto anni di fatica, quando raggiungi i tredici anni (i motivi sono alquanto personali, del genere "cose che tu e tuo padre vi rinfaccerete per tutta la vita"), e per i successivi tre anni ti rifiuti di ascoltare qualunque tipo di melodia (sì, al punto di uscire da una stanza dove qualcuno ascolta un disco). Poi gli anni passano, tu cresci, e impari anche ad ascoltare la musica. Ascoltarla davvero: quell'attività che assomiglia terribilmente a - beh, lo sapete. Però del tutto pace con le note non l'hai ancora fatta. Le senti, non le senti, non sai, non vuoi sapere. Poi, anche per altri motivi, ti viene questa idea di andare a cantare nel coro della chiesa. L'anno in cui arriva un maestro nuovo che ha l'idea di non farci solo cantare ma anche di insegnarci un po' di solfeggio cantato. E questa notte mi accorgo di non poter più scrivere ascoltando Mozart, perché quei mi continuano a dirmi il loro nome, forte e chiaro. Ciao, mi. Bentornato nella mia testa. (Non fatevi strane idee, ehi. Non sono mica così brava: colgo bene una dominante, una tonica ogni tanto; poi faccio due conti, chiaro; e i cantanti non li capisco mai. Però è qualcosa.)

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